Pubblichiamo in allegato il testo dell'intervento di Giorgio Lattanzi, Presidente della Corte Costituzionale, in occasione dell'evento inaugurale del "viaggio nelle carceri" della Corte Costituzionale, svoltosi a Rebibbia il 4 ottobre 2018.
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Costituzione e carcere
La Costituzione ha compiuto settanta anni.
Li ha compiuti il 1° gennaio 2018, essendo entrata in vigore il 1° gennaio 1948.
Spesso si dice che la nostra Costituzione è la più bella del mondo. Non so se è così, ma so che è bella; bella per i suoi contenuti e anche per la sua forma. E la Corte costituzionale i suoi settanta anni li ha voluti ricordare con varie iniziative, che vanno anche oltre l’intento meramente celebrativo.
La Corte ha avvertito l’esigenza di uscire dal Palazzo della Consulta di farsi conoscere e al tempo stesso di conoscere, di incontrare persone e di mettersi in discussione.
Una di queste iniziative, la più significativa, è quella del “Viaggio in Italia”.
A maggio si è concluso il “viaggio” nelle scuole d’Italia, dove la Corte costituzionale ha “raccontato”, più che illustrato, la Costituzione.
Ora il “Viaggio”, e quindi “il racconto”, prosegue nelle carceri, e siamo qui oggi a illustrare questa nuova iniziativa e il suo significato.
Può sembrare strano che la Corte sia venuta a fare l’elogio della Costituzione, cioè di una legge, nel luogo in cui la legge, per punire chi l’ha violata, si manifesta in forme costrittive, che possono farla apparire nemica. Ma a ben vedere una legge, se è giusta, se dà a ciascuno il suo, e la nostra Costituzione è sicuramente giusta, una legge così, dicevo, non è mai una nemica e rappresenta in molti casi un indispensabile strumento di tutela, che impedisce abusi e prevaricazioni.
Di uno strumento del genere hanno soprattutto bisogno le persone che nella società, per ragioni diverse, vengono a trovarsi in condizioni di debolezza, di subordinazione o di dipendenza, e che perciò vedono limitata o condizionata in vario modo la propria vita, come accade alle persone detenute.
E massima è la tutela che assicura a tutti la nostra legge fondamentale, la Costituzione. Con i suoi doveri e le sue responsabilità, ma anche con i suoi diritti e le sue tutele, la Costituzione si rivolge a tutti, anche a chi è detenuto, e garantendone i diritti, vuole che la detenzione non avvenga senza regole e non sia rimessa esclusivamente alla discrezionalità dell’Amministrazione penitenziaria.
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Voglio dire che l’esecuzione della pena deve essere regolata da leggi, che queste, a loro volta, devono essere conformi alla Costituzione e che alla base della nostra Costituzione c’è la persona umana, con la sua insopprimibile dignità.
“Dignità e persona – si è detto (Silvestri) – coincidono: eliminare o comprimere la dignità di un soggetto significa togliere o attenuare la sua qualità di persona umana. Ciò non è consentito a nessuno”, e ciò significa che neppure la detenzione può incidere sul nucleo fondamentale della dignità personale e consentire atti e limitazioni non necessari ai fini detentivi.
Nelle decisioni della Corte costituzionale è assegnato alla dignità della persona un ruolo decisivo. È nella dignità che la Corte riconosce il naturale presupposto di molti dei diritti che di volta in volta, nei vari giudizi vengono in considerazione.
Ed è nell’art. 2 della Costituzione che innanzi tutto si radica questo presupposto, dato che, come si legge in una sentenza della Corte costituzionale (sent. n. 479 del 1987), in quell’articolo è sancito “il valore assoluto della persona umana”.
Nelle carceri noi parleremo anche di questo; ricorderemo che la Costituzione, con il valore fondamentale della dignità che ne è alla base, appartiene anche a chi è detenuto.
Il nostro discorso nelle carceri, il nostro “racconto”, vuole rappresentare il riconoscimento costituzionale della dignità delle persone detenute, vuole indicare che tra il “dentro” e il “fuori” delle mura del carcere non esistono barriere ideali, ma solo barriere fisiche, e che nella Carta costituzionale il carcere non significa esclusione ma impegno per l’inclusione, attraverso un’opera di risocializzazione alla quale non deve mancare l’apporto delle stesse persone detenute.
“Mai più un carcere cimitero dei vivi” è stato l’impegno dei nostri padri costituenti, che durante il ventennio fascista avevano conosciuto la mortificazione del “carcere-cimitero”.
Da quel giuramento è nato l’art. 27 della Costituzione, che finalizza le pene alla “rieducazione” del condannato, anche attraverso la progressiva apertura all’esterno del carcere e il pieno rispetto dei diritti del detenuto. Un “dentro” nella prospettiva di un nuovo “fuori”; non un “dentro” in cui si finisce ma, nel progetto costituzionale, un “dentro” da cui si ricomincia.
E ciò nella logica di una pena che secondo l’art. 27 della Costituzione non può “consistere in trattamenti contrari al senso di umanità” e deve tendere “alla rieducazione del condannato”.
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La sua esecuzione richiede l’osservanza di tutti i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, perché con questa possono essere compatibili solo i limiti di quei diritti che sono necessari per assicurare nelle carceri la sicurezza e la custodia.
“Ogni limitazione nell’esercizio dei diritti del detenuto – si è detto (Silvestri) – che non sia strettamente funzionale a questo obiettivo acquista un valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione della libertà personale, incompatibile con l’art. 27 Cost. (sentenza n. 135 del 2013) e inammissibile in un ordinamento basato sulla assoluta priorità dei diritti della persona, che trova appunto nella privazione della libertà personale, il limite massimo di punizione non oltrepassabile per alcun motivo”
Non si tratta di enunciazioni solo teoriche, e ciò è dimostrato dalle numerose decisioni della Corte costituzionale che negli anni hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale di varie norme dell’ordinamento penitenziario o con le indicazioni e i moniti contenuti nelle sentenze, hanno indotto il legislatore a modificazioni normative per riconoscere diritti che prima erano esclusi.
Tra queste modificazioni voglio ricordare quelle determinate dagli artt. 35-bis e 35-ter, inseriti nell’ordinamento penitenziari il primo dal d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito nella l. 21 febbraio 2914, n. 10 e il secondo dal d.l. 26 giugno 2014, n. 92, convertito nella l. 11 agosto 2014, n. 117. Due articoli che, nell’accogliere le indicazioni di due sentenze della Corte, hanno introdotto due nuovi fondamentali istituti, quello del reclamo giurisdizionale e quello dei rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’art. 3 della CEDU.
Nell’ordinamento penitenziario i reclami al magistrato di sorveglianza davano luogo a provvedimenti privi di effettività sicché l’eventuale accoglimento delle richieste dei detenuti ben poteva essere disatteso dall’amministrazione. Che ciò non fosse conforme alla Costituzione era stato fatto rimarcare al legislatore dalla sentenza della Corte costituzionale n. 279 n. del 2013, che aveva fatto seguito alla sentenza Torreggiani della Corte europea dei diritti dell’uomo. Ma già in precedenza la Corte costituzionale, con la sentenza n. 135 del 2013, aveva affermato che “le decisioni del magistrato di sorveglianza, rese su reclami proposti da detenuti a tutela di propri diritti e secondo la procedura contenziosa di cui all’art. 14-ter ord. pen., devono ricevere concreta applicazione e non possono essere private di effetti pratici da provvedimenti dell’Amministrazione penitenziaria o di altre Autorità”.
A questa affermazione la successiva sentenza n. 279 aveva aggiunto: “È inoltre necessario che, a garanzia della preminenza dei principi costituzionali ai quali deve conformarsi l’esecuzione della pena gli interventi dell’amministrazione penitenziaria si trovino inseriti in un contesto di effettiva tutela giurisdizionale”.
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E questa tutela finalmente è intervenuta con l’art. 35-bis che ha innestato sul reclamo un completo procedimento giurisdizionale, seguito, ove necessario, da un ordine di ottemperanza.
Non c’è più alcuna possibilità per l’amministrazione di rendere ineffettivo il reclamo della persona detenuta evitando di dare esecuzione alla decisione del magistrato di sorveglianza.
In questo caso era necessaria l’opera del legislatore, ma la maggior parte degli interventi modificativi dell’ordinamento penitenziario dovuti alla Corte costituzionale sono stati fatti direttamente con dichiarazioni di illegittimità costituzionale.
Limitando il riferimento al solo anno 2018, voglio ricordare due decisioni assai significative con le quali è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di norme dell’ordinamento penitenziario che in situazioni particolari precludevano benefici altrimenti consentiti.
Con la sentenza n. 149 del 2018 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 4, dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui prevede che i condannati all’ergastolo per i delitti di cui agli artt. 289-bis e 630 del codice penale che abbiano cagionato la morte del sequestrato non sono ammessi ad alcuno dei benefici indicati dal comma 1 dell’art. 4-bis ord. pen. se non hanno effettivamente espiato almeno 26 anni di pena.
Si tratta di una decisione significativa per una serie di affermazioni sul percorso di progressivo reinserimento sociale dell’ergastolano e per alcune considerazioni critiche nei confronti di eventuali preclusioni rispetto a benefici che dovrebbero accompagnare tale percorso. In particolare la sentenza ha giudicato “Incompatibili con il vigente assetto costituzionale ... previsioni ... che precludano in modo assoluto, per un arco temporale assai esteso, l’accesso ai benefici penitenziari a particolari categorie di condannati – i quali pure abbiano partecipato in modo significativo al percorso di rieducazione, e rispetto ai quali non sussistano indici di perdurante pericolosità sociale individuati dallo stesso legislatore nell’art. 4-bis ordin. penit. – in ragione soltanto della particolare gravità del reato commesso, ovvero dell’esigenza di lanciare un robusto segnale di deterrenza nei confronti dei consociati”.
Con la seconda decisione, la n. 174 del 2018, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 21-bis dell’ordinamento penitenziario, nella parte in cui alle detenute condannate per un reato ostativo non consente l’assistenza all’esterno dei figli di età non superiore ai dieci anni.
Con questa decisione la Corte ha ribadito quanto aveva già affermato con la sentenza n. 76 del 2017, vale a dire “che se il legislatore, tramite il ricorso a presunzioni insuperabili, nega in radice l’accesso della madre a modalità agevolate di esecuzione
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della pena, impedendo al giudice di valutare la concreta sussistenza nelle singole situazioni, di esigenze di difesa sociale, bilanciandole con il migliore interesse del minore in tenera età, si è al cospetto dell’introduzione di un automatismo basato su indici presuntivi, il quale comporta il totale sacrificio di quell’interesse”
Due dunque sono i principi, peraltro non nuovi, che hanno orientato la decisione: quello che un trattamento deteriore della persona detenuta non può essere giustificato con presunzioni negative di carattere assoluto, e cioè insensibili a un eventuale diverso accertamento dei fatti da parte del giudice, e quello che il trattamento di una madre con figli in tenera età non può prescindere dalla considerazione dell’interesse di questi “a beneficiare in modo continuativo dell’affetto e delle cure materne”.
Andando a ritroso nel tempo si incontrano molte altre pronunce di illegittimità costituzionale di norme dell’ordinamento penitenziario e molti altri i principi affermati dalla Corte per tutelare diritti che erano stati sacrificati. Si tratta, solo per citarne alcuni, del diritto di difesa, del diritto alla salute, del diritto all’istruzione, del diritto all’informazione e dei diritti del detenuto lavoratore relativi al rapporto di lavoro.
È stato un percorso lungo quello fatto del giudice delle leggi per adeguare progressivamente l’ordinamento penitenziario alla Costituzione traendo da questa sempre nuovi significati di garanzia.
E benché lungo quel percorso di certo non è ancora giunto alla fine.
Da quanto ho detto credo emerga chiaramente che la Costituzione e la Corte costituzionale esistono anche per le persone detenute, e in modo particolare per loro, data la situazione di debolezza in cui necessariamente si trovano.
Costituiscono per loro, come per tutti, uno scudo nei confronti dei poteri dello Stato, che neppure il legislatore con le sue mutevoli maggioranze può violare.
Questa è la forza della Costituzione: è una “superlegge”, e la sua modificazione non può avvenire con una legge ordinaria ma richiede un complesso procedimento di revisione regolato dall’art. 138 della Costituzione.
Ma è da aggiungere che anche la revisione non è senza limiti, perché ci sono dei “principi supremi” che non possano in alcun modo essere violati, rappresentano degli elementi identitari la cui soppressione o violazione comporterebbe non già una revisione della Costituzione ma un suo inconcepibile mutamento radicale
Essa così è per tutti una protezione, ma è anche un punto di riferimento e una guida. Ricordo che Paolo Grossi, presidente emerito della Corte costituzionale, era solito dire che la Costituzione è il nostro breviario, da tenere sempre a portata di mano sul comodino.
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È un testo che ha preso vita dopo la fine del fascismo e la liberazione dell’Italia dall’occupazione tedesca, e che si è formato nel ricordo di quella tremenda esperienza, in modo che non si ripetesse più.
Il 2 giugno 1946, quando il Paese portava ancora i segni tremendi della guerra, gli italiani erano stati chiamati alle urne, oltre che per scegliere tra repubblica e monarchia, anche per eleggere i membri dell’Assemblea costituente che avrebbe dovuto dare all’Italia la nuova Costituzione, ripristinando i diritti e le libertà soppressi o limitati dal regime fascista e disegnando un nuovo modello di Stato.
Dopo un anno e mezzo di lavori intensi e appassionati, il 22 dicembre 1947 la nuova Carta costituzionale venne finalmente approvata.
Oggi quel risultato sembra un miracolo. Di revisione di alcune parti della Costituzione si parla da anni, tra fortissimi dissensi e testi abortiti in seguito ai referendum popolari. Perciò, se ci guardiamo indietro, ci chiediamo come è stato possibile che in un anno e mezzo i costituenti, superando tutti i contrasti e tutte le divisioni, siano riusciti ad approvare un testo della completezza e della qualità della nostra Costituzione. Approvato a grande maggioranza, con 458 voti favorevoli, 62 contrari e nessun astenuto, su un totale di 520 votanti.
Eppure erano tempi di grandi contrasti e di forti passioni politiche, in cui si contrapponevano due mondi, quello comunista e quello occidentale, e in cui si contendevano il terreno le diverse ideologie liberale, cattolica e comunista. I costituenti sono riusciti a permeare la Carta costituzionale di tutte e tre queste ideologie e a realizzare un sistema che garantisse sufficientemente tutti. Un traguardo che è stato possibile raggiungere perché comune era l’intento di dare al Paese una Carta in grado di assicurare un futuro di democrazia. E questo intento è prevalso su ogni prospettiva di parte.
Sarebbe bello se potessimo ritrovare oggi quello spirito, almeno nei momenti fondamentali per la vita del Paese.
Il frutto di quegli appassionati lavori fu un testo costituzionale nuovo per la sua impostazione di fondo e per i suoi contenuti. Furono superate le precedenti carte dei diritti di tipo liberale, incentrate sull’individuo, considerato isolatamente. E accanto ai diritti e alle libertà individuali, fu delineato, un ordinamento pluralistico, cioè un ordinamento in cui convivono in uno scambio di idee ed esperienze quell’insieme di persone e di organismi, familiari, sociali ed economici, che compongono la nostra società. Non a caso si è parlato di “piramide rovesciata”, perché alla base della costruzione normativa è stata collocata la persona, la singola persona, ogni persona – come ho già detto – anche quella detenuta, e proprio partendo dalla persona è stato ricostruito tutto l’ordinamento costituzionale.
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La Corte costituzionale è stata una delle novità più significative previste dalla Costituzione.
La Corte è un giudice e da giudice deve comportarsi, anche quando, per il suo ruolo, sulla scena sociale e politica diventa necessariamente protagonista.
È un protagonista che non deve mai trasformarsi in una parte.
È importante che la Corte sia immersa nella società e sia consapevole delle idee, dei sentimenti e degli umori che si agitano ed eventualmente dominano nel Paese, ma non dipendere da questi nei suoi giudizi sulle leggi. Le sue direttrici la Corte non può che trarle dalla Costituzione e solo quelle direttrici deve seguire, avendo cura di evitare anche scostamenti momentanei dai principi costituzionali.
È questo il nostro compito. Stiamo cercando di svolgerlo come meglio sappiamo e possiamo e di farlo conoscere al Paese.
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