Non si spegne l’eco del clamore suscitato dalla sentenza della Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la quale è stata annullata con rinvio l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Bologna, che aveva rigettato la richiesta di rinvio dell’esecuzione della pena per gravi ragioni di salute presentata dai legali di Salvatore Riina.
Al di là di quelli che saranno gli effetti pratici sulla vicenda detentiva del boss corleonese, l’arresto giurisprudenziale delinea alcune interessanti e coraggiose acquisizioni nell’inquadramento dei rapporti tra esercizio della pretesa punitiva e rispetto dei diritti minimi del condannato, tanto più apprezzabili perché riguardano un personaggio con una storia criminale alle spalle di straordinaria gravità.
Non è un caso che quella che non è altro che un’affermazione di principi minimi di civiltà giuridica sia stata accompagnata da fragorose e sguaiate polemiche, segno del fatto che il tema della “giusta espiazione”, specie quando tocca figure simbolo di determinati contesti criminali, rappresenta un nervo scoperto nel sentire del Paese.
Il passaggio più interessante della motivazione della sentenza è probabilmente quello in cui viene affermata l’esistenza di un diritto del condannato, che versi in condizioni di salute precarie e sia in pericolo di vita “a morire dignitosamente”, vale a dire a non ricevere un surplus di sofferenza dallo stato detentivo, tale da determinare un trattamento contrario ai principi di umanità che devono ispirare l’esecuzione della pena secondo il nostro sistema costituzionale.
Nelle parole della Suprema Corte: “In presenza di patologie implicanti un significativo scadimento delle condizioni generali e di salute del detenuto, il giudice di merito, pertanto, deve verificare, adeguatamente motivando in proposito, se lo stato di detenzione carceraria comporti una sofferenza ed un'afflizione di tali intensità da eccedere il livello che, inevitabilmente, deriva dalla legittima esecuzione di una pena. Al di là, quindi, della trattabilità delle singole patologie, rileva nel giudizio de quo, la valutazione complessiva dello stato di logoramento fisico in cui versa il soggetto, sovente aggravata anche da altre cause non patologiche come, nel caso di specie, la vecchiaia”.
Dunque una visione della “compatibilità” con la detenzione inframuraria non più limitata alla semplice “trattabilità” della patologia all’interno del carcere, ma legata al carico di sostenibilità della sofferenza concretamente patita dal soggetto ristretto. Tale giudizio, inoltre, non può prescindere (come invece quello del Tribunale di Sorveglianza aveva fatto) dalla valutazione delle specifiche caratteristiche del luogo nel quale la detenzione viene eseguita.
Non sembra così tanto, in effetti. Le parole della Corte si iscrivono coerentemente nel quadro dell’evoluzione giurisprudenziale di questi anni. Eppure, a leggere le reazioni scandalizzate di tanta parte della politica e di qualche autorevole esponente della magistratura, sembra si tratti di concetti ai limiti dell’eversione.
E proprio quel diritto (minimo) ad una morte dignitosa pare aver scandalizzato di più, perché – come è stato detto – riferito ad un assassino, che quello stesso diritto ha negato alle tante sue vittime.
Ebbene, obiezioni di questo genere dimostrano quanto poco siano interiorizzate, non solo da parte dell’opinione pubblica, ma anche da una fetta consistente di rappresentanti istituzionali e - addirittura - da un certo numero di addetti ai lavori, i principi costituzionali di umanizzazione della pena.
In questo senso, la vicenda detentiva di Riina, proprio perché legata ad una figura comunemente esecrata, diventa parametro utile per avere la plastica verifica di come, a grattare la crosta delle dichiarazioni di principio, la concezione della pena come strumento di innflizione di un male corrispondente a quello provocato alla società dal condannato, sia ancora la stella polare di riferimento del sentire comune a tanti settori della nostra società.
A tal proposito, sconcertano in particolare le considerazioni del Procuratore della Repubblica di Catanzaro, Dott. Gratteri, il quale ha richiamato le responsabilità (indiscutibili) di Riina nell’aver privato tanti figli di vittime di mafia dei loro padri, affermando che già questo giustificherebbe la negazione di qualsiasi contatto del boss malato con i suoi familiari più stretti.
Ebbene, a parte la chiara distonia di un ragionamento di questo tipo, che - portato alle sue logiche ed inaccettabili conseguenze - dovrebbe riguardare chiunque si sia reso responsabile di delitti gravi, è evidente che, al di là e prima di ogni considerazione sulla possibile pericolosità del condannato Riina, ciò che scandalizza è che lo Stato possa dimostrarsi attento a salvaguardare valori come la “dignità” anche nei confronti di coloro che abbiano commesso dei crimini efferati.
Sempre il Procuratore ha stigmatizzato “i discorsi caritatevoli”, che sarebbero una manifestazione di ipocrisia offensiva nei confronti della memoria di Falcone e Borsellino e di tutte le altre vittime delle stragi di cui Riina è responsabile, tanto che - probabilmente rivolgendosi ai giudici della Cassazione - il Dott. Gratteri ha invitato, laddove la mafia dovesse riprendere la strategia stragista degli anni’90 “a rimanere a Roma in caso di funerali”.
Tralasciando il fatto che non stupisce, ma fa riflettere, che un attacco così violento nei confronti dell’autonomia della Giurisdizione provenga da uno stimato ed autorevole esponente dell’Ordine Giudiziario, ci permettiamo di dissentire su un punto fondamentale: la carità non c’entra nulla con ciò che è scritto nella sentenza della Cassazione.
Perché rivendicare l’esistenza del diritto ad una morte dignitosa anche per un condannato per reati orribili significa semplicemente dare attuazione alla legalità costituzionale, quello stesso valore che - ne siamo certi! - sovrintende in ogni momento l’agire del Procuratore Capo di Catanzaro e di tutti gli altri magistrati della Repubblica.
Vuol dire che se si afferma che la pena non può degradare e privare di umanità colui che la sconti, questo deve valere anche per l’uomo che si sia macchiato dei crimini più orrendi.
Così come, non spetta a noi valutare se il detenuto Riina sia ancora pericoloso, tuttavia dire - come fa la Corte di Cassazione nella sentenza di cui si discute - che il giudizio sulla pericolosità deve essere formulato in rapporto alle attuali condizioni di capacità fisica del condannato, significa semplicemente affermare il principio secondo cui un uomo lo si punisce per quello che è e non per ciò che rappresenta.
Non è il “segnale” che possa arrivare all’opinione pubblica o agli appartenenti alle associazioni criminali da una eventuale scarcerazione di un boss a poter essere oggetto di attenzione da parte di chi debba giudicare sul mantenimento di una detenzione.
Tanto perché fare ciò equivarrebbe a sostituire il simbolo all’uomo come terminale della pena.
Si continuerebbe ad infliggere la sofferenza derivante da una detenzione non più umana all’uomo per punire ciò che quell’uomo rappresenta. E tutto questo sarebbe inaccettabile e illegale. Anche se quell’uomo si chiama Salvatore Riina.
Avv. Alfonso Tatarano - Consigliere de il Carcere Possibile Onlus