E’ di questi giorni la notizia dei molti detenuti della casa circondariale di Poggioreale che preferiscono trascorrere la giornata in cella, piuttosto che usufruire del recente regime delle celle aperte, il quale consentirebbe loro di permanere e muoversi liberamente all’interno di alcune sezioni - o padiglioni - per un tempo di 8 ore giornaliere.
Secondo quanto riferisce lo stesso direttore dell’Istituto, la ragione principale di tale comportamento risiede principalmente nella volontà di evitare il contatto con affiliati a clan antagonisti, o con le nuove generazioni delle “paranze”.
Non dubitiamo della spiegazione fornita dalla direzione dell’Istituto, ma siamo convinti che la questione sia più complessa e desideriamo prendere spunto da quanto accaduto a Poggioreale per riflettere sull’origine e sulle prospettive delle nuove linee di politica penitenziaria.
La modalità trattamentale delle “celle aperte” per i detenuti di sesso maschile in regime di media sicurezza, viene introdotto con una circolare del D.A.P. del 24.11.2011, ma trova effettiva realizzazione solo dopo la nota sentenza Torreggiani del 2013. Non a caso - dopo la circolare del 2011 - il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria emana altre tre circolari, rispettivamente nel maggio del 2012 ed a gennaio e luglio del 2013, tese a mettere a punto il nuovo modello della “vigilanza dinamica”, la cui applicazione trovava non poche resistenze all’interno delle case di reclusione.
La nuova politica dell’amministrazione penitenziaria, più che dare attuazione a quanto previsto dall’art. 6 dell’ordinamento penitenziario, risponde soprattutto alla necessità di dare risposte a quanto richiesto in sede sovranazionale, e ciò senza aggravio di costi per lo Stato: le celle aperte otto ore al giorno costituiscono un evidente miglioramento delle condizioni di detenzione, rendendo più dignitosa la vita in Istituti perennemente sovraffollati e spesso in disastrose condizioni strutturali.
Inutile dire, che nelle circolari ministeriali, viene sottolineato come la novità trattamentale sia finalizzata anche a contribuire alla responsabilizzazione del detenuto chiamato ad nuova “gestione” di sé stesso; ma la verità è che si è raggiunto il massimo risultato, dare attuazione all’art. 6 dell’ordinamento penitenziario ed arginare la pioggia di condanne della CEDU, con il minimo sforzo economico.
Le motivazioni non saranno particolarmente nobili ma il risultato certamente lo è, e non può essere consentita alcuna retromarcia, come auspicherebbero alcuni (i soliti) sindacati della polizia penitenziaria.
Tuttavia, se l’apertura delle celle ha reso e rende la detenzione maggiormente rispettosa della dignità della persona, purtroppo essa non ha avuto, ed invero non poteva avere, altrettanta efficacia sotto il profilo rieducativo e del reinserimento sociale. Nella maggioranza degli istituti penitenziari l’apertura delle celle, infatti, non è stata accompagnata dalla creazione di alcun tipo di spazio comune di socializzazione, né vi è stata alcuna implementazione della attività di formazione, così che i detenuti non possono far altro che passeggiare nei corridoi della sezione o dei padiglioni, dove evidentemente possono anche rischiare quegli incontri “sgradevoli” e pericolosi che inducono molti reclusi a preferire la “tranquillità” della cella. Eppure le relazioni degli Stati Generali sull’Esecuzione Penale avevano già ammonito dell’insufficienza di tale cambiamento: “sembra opportuno capovolgere l’ordinaria prospettiva e prevedere che, per quanto riguarda il circuito della media sicurezza, le celle debbano restare chiuse esclusivamente nelle ore notturne. Bisogna però aggiungere che l’apertura prolungata delle camere non è di per sé sufficiente. Deve infatti essere considerata una semplice premessa per consentire la partecipazione del condannato alle attività rieducative organizzate nell’istituto, mentre sarebbe un mero “palliativo” se avesse come unico risultato quello di consentire al detenuto di muoversi senza costrutto all’interno della sezione di appartenenza”.
Per quanto singolare possa apparire, l’innovazione delle celle aperte ci proietta con ancora maggiore forza e premura verso quel definitivo salto di qualità nella concezione della detenzione: non è più possibile “accontentarsi” di condizioni di vita dignitose; dobbiamo pretendere che la capacità di assicurare risocializzazione, formazione della persona, ed occasioni di reinserimento lavorativo, costituiscano servizi minimi imprescindibili di ogni istituto detentivo.
A questo fine è improcrastinabile il ricorso ad una nuova architettura penitenziaria, che ripensi gli spazi e trasformi molti degli istituti attualmente operativi da meri luoghi di custodia a luoghi di espressione, socializzazione, costruzione di un nuovo e diverso futuro. Forti di questa convinzione anche noi, in collaborazione con l’associazione Made in Hearth, abbiamo cercato di dare, a giugno 2015, il nostro contributo donando all’amministrazione penitenziaria un progetto di ristrutturazione di un cortile del carcere di Poggioreale, assolutamente innovativo per la sua capacità di proiettare all’interno di uno spazio detentivo le attività tipiche della vita all’esterno. Progetto che, pur avendo ricevuto tutte le autorizzazioni necessarie, non è stato ancora messo in cantiere.
Siamo allo stesso tempo consapevoli che nel nostro paese Vi sono strutture detentive la cui costruzione risale a ben prima del 1900, ed ogni serio tentativo di rivoluzionarne la funzione meramente custodiale appare di difficile realizzazione.
Per questa ragione non si può essere aprioristicamente contrari alla costruzione o apertura di nuovi istituti, se con essi, però, non si intende perseguire un mero ed effimero effetto decongestionante dell’attuale situazione di sovraffollamento; quanto piuttosto realizzare strutture concepite sin dall’origine per assolvere in maniera seria ed efficace ad una funzione di recupero individuale e sociale della persona. Non a caso già nel 2010 il Carcere Possibile donò al Ministero della Giustizia un Progetto per la costruzione di un nuovo modello di carcere, risultato vincitore di un concorso di idee realizzato in collaborazione con l’A.C.E.N..
Naturalmente, questi interventi non sono a costo zero, ed a nostro avviso sarà questo il vero banco di prova su cui misurare la serietà della tanto “ostentata” volontà di cambiamento e di progresso
dell’amministrazione penitenziaria.
Avv. Sergio Schlitzer
Presidente il Carcere Possibile Onlus