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Come non rimanere sgomenti leggendo dell’”esultanza” di alcuni agenti penitenziari alla notizia del suicidio di Ioan Gabriel Barbuta. Ma altrettanto sconcertati lascia il disinteresse degli organi di informazione per quella che avrebbe dovuto essere la notizia più significativa: una persona di appena 39 anni, in custodia presso un istituto penitenziario della civilissima Italia, ha deciso di togliersi la vita. Anzi possiamo essere certi che, se non fosse stato per gli sconsiderati post degli agenti, la morta di Ioan Gabriel Barbuta sarebbe passata nel più totale silenzio, null’altro che un numero da aggiungere nella tragica statistica delle carceri italiane. Eppure, l’ennesimo suicidio di un giovane uomo all’interno di un Istituto penitenziario dello Stato, deputato, non solo a garantire la custodia ma anche a salvaguardare l’integrità fisica dei suoi ospiti accompagnandoli nel loro percorso di reinserimento all’interno della società, non dovrebbe lasciarci indifferenti, ma inquietarci non meno di ciò che hanno ignobilmente scritto gli agenti. Ma non è così. Non è stato così. Nessun giornalista ha cercato di sapere qualcosa di più della vita di Ioan, di quando e con quali speranze è arrivato nel nostro paese, o delle ragioni del Suo tragico gesto, non serviva altro che conoscere il delitto per il quale era stato “sbattuto dentro”. Del resto si sa, i detenuti sono figli di un Dio minore, dannati più che condannati; più che peccatori, peccato essi stessi. Di fronte a questo sentimento così diffuso, e che fa da substrato culturale alle vergognose ed inqualificabili considerazioni degli agenti penitenziari, non nuovi a gravi episodi di intolleranza, possiamo davvero pensare che sia sufficiente reagire con una punizione esemplare? Con la gogna pubblica del colpevole? Sanzionando, senza contestualmente intervenire sulle cause che hanno indotto il comportamento sanzionato? A nostro avviso non è sufficiente. E’ necessario che l’amministrazione penitenziaria intervenga al più presto in una duplice direzione. In primo luogo va data effettiva attuazione all’art. 5 dell’Ordinamento del Corpo di Polizia Penitenziaria. Gli Agenti devono essere resi partecipi delle attività trattamentali, in modo da rendere la “rieducazione” del detenuto anche un loro obiettivo ed un loro successo. Si tratta di realizzare finalmente una rivoluzione culturale di fatto rimasta solo sulla carta. Per raggiungere tale risultato è, però, indispensabile rivedere anche i corsi di formazione destinati al personale penitenziario, nei quali le ore di studio dedicate ai diritti umani ed al rispetto della dignità della persona sono ancora troppo poche rispetto a quelle destinate all’addestramento. A ciò va aggiunto che il numero degli educatori è assolutamente insufficiente ed un loro incremento è una esigenza improcrastinabile. L’altro campo di azione deve riguardare il rapporto tra l carcere e la comunità. Il Carcere non può permettersi di non tenere un rapporto di comunicazione e collaborazione costante con la realtà territoriale che lo circonda, perché solo così potrà conquistare la medesima considerazione che la società riserva ad altre pubbliche istituzioni. Deve far conoscere, soprattutto ai più giovani, le sue prerogative, le sue difficoltà, i suoi successi, le storie dei suoi “ospiti”. Del resto quale miglior insegnamento vi può essere se non che la possibilità di riscatto è una prerogativa di chiunque, che non è mai troppo tardi per essere quello che vogliamo essere.
Avv. Sergio Schlitzer
Presidente Carcere Possibile Onlus |