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La relazione sull’amministrazione della Giustizia nell’anno 2014 del Primo Presidente della Suprema Corte di Cassazione, Giorgio Santacroce, reca in premessa questa frase: “La privazione della libertà essendo una pena, essa non può precedere la sentenza se non quando la necessità lo richiede”( Dei delitti e delle pene – a 250 anni da Cesare Beccaria). Tale concetto, scritto dal Beccaria due secoli e mezzo fa, non viene riportato prima di affrontare le problematiche relative alla detenzione, ma all’inizio del consueto rapporto annuale che viene redatto per l’inaugurazione dell’anno giudiziario presso la Suprema Corte. Nell’affrontare tutti i temi fondamentali della Giustizia – quelli in materia civile, penale, minorile, a tutela della giurisdizione, ecc.. – il Primo Presidente ha sentito la necessità di ricordare, innanzitutto, che la custodia cautelare è la soluzione a cui ricorrere quando le altre possibili misure siano state sperimentate o esaminate, ma ritenute non adeguate. La ragione di tale importante richiamo la si trova nella stessa relazione, dove si legge :”… Non basta, dunque, che i giudici invochino e sollecitino il legislatore e la politica ad intervenire. E’ necessario che assumano anche su di loro il carico di conferire effettività al principio del che deve governare ogni intervento, specie giurisdizionale, in tema di libertà personale”. Viene sottolineato come “… non sembra, però, che il monito sia stato del tutto ascoltato. I dati relativi alla percentuale dei detenuti ristretti in carcere in forza di misure cautelari parrebbe smentirlo. E pure il nostro sistema, se correttamente inteso, già oggi impone di considerare realisticamente le esigenze cautelari e di saggiarne prudentemente l’effettiva attualità; di valutare e privilegiare ogni modo alternativo del loro contenimento; di adeguare le decisioni sulla libertà ai principi di proporzionalità e adeguatezza; di considerare, insomma, anche il ricorso alla custodia cautelare in genere e alla custodia cautelare in carcere in particolare alla stregua dei canoni di adeguatezza, proporzionalità ed extrema ratio. Molte delle enunciazioni normative contenute nel d.d.l. N.1232-8 sarebbero probabilmente superflue se tali indicazioni venissero sempre effettivamente seguite”. Il Magistrato più autorevole, dunque, rimprovera i suoi colleghi non solo di un eccessivo ricorso alla custodia cautelare in carcere, ma anche di non applicare le norme vigenti in tema di limitazione della libertà personale. Il legislatore, infatti, si è visto costretto ad elaborare un disegno di legge che, in larga misura, ripropone principi già ampiamente previsti dalle norme in vigore. L’Unione Camere Penali denuncia da sempre l’abuso che viene sistematicamente fatto della custodia cautelare in carcere. Ora a ribadirlo è anche la Magistratura, non quella associata, ma la più autorevole, la “Suprema”, che spesso è costretta a cassare ordinanze e a ridare la libertà dopo innumerevoli mesi d’ingiusta detenzione, che troveranno, a volte, un esiguo risarcimento monetario da parte dello Stato. E se la perdita della libertà non ha prezzo per l’individuo, per lo Stato il prezzo è molto alto, vista la quantità di indennizzi pagati. Da tangentopoli in poi si è cercato, inutilmente, di porre rimedio all’abuso della custodia cautelare. Più recentemente, da oltre due anni il Parlamento tenta di approvare una riforma, senza approdare ad un testo che possa davvero considerarsi innovativo. Il disegno di legge nei continui passaggi da una Camera all’altra si svuota sempre più di contenuti e , se finalmente approvato, porterà ben poche novità. L’insegnamento di Beccaria, dopo 250 anni, non trova alcun riscontro nella pratica. L’enorme numero di misure cautelari annullate non riesce ad innescare il meccanismo politico che possa condurre ad un testo legislativo che definisca in maniera chiara, inequivocabile e stringente la possibilità di ricorrere alla privazione della libertà, senza una sentenza di condanna definitiva. Le ragioni di tale inerzia, spesso indicate dalle Camere Penali, sono da riscontrarsi in una certa cultura giustizialista, che trova ampi consensi nell’opinione pubblica. Sono le “ansie sociali” descritte da Giovanni Fiandaca e richiamate dal Primo Presidente della Suprema Corte di Cassazione nella sua relazione, che “invocano un sistema repressivo incentrato sul paradigma della pena detentiva”. Eppure sono molti gli autorevoli giuristi – recentemente Gustavo Zagrebelsky, già Presidente della Corte Costituzionale – a ritenere il carcere dannoso per chi lo subisce e per gli uomini liberi. Il segnale che viene da questi 250 anni trascorsi invano è l’improcrastinabile necessità di “rieducazione”. Non quella prevista dall’art. 27 della Costituzione per i condannati, ma un’attività svolta nei confronti dell’opinione pubblica che possa far condividere principi base di civiltà giuridica. Nell’incontro avuto con il Ministro della Giustizia lo scorso 22 gennaio l’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere Penali ha illustrato un progetto che va soprattutto in questa direzione, riscontrando piena adesione. Avv. Riccardo Polidoro Responsabile Osservatorio Carcere Unione Camere Penali Italiane
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