06-04-2014
GUIDA AI DIRITTI ED AI DOVERI DEI DETENUTI SECONDA EDIZIONE: Nella sezione UTILITA' del sito č disponibile la seconda...
 
ANCORA UNA RIFLESSIONE SULLA RECENTE SENTENZA DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO
Roberto Giovene di Girasole, Avvocato del Foro di Napoli e nostro associato ha elaborato delle interessanti note sul provvedimento che condanna l'Italia per le condizioni in cui sono costretti a vivere i detenuti.
 

Prime riflessioni sulla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’Uomo dell’8 gennaio 2013 (Torreggiani e altri c. Italia).

di: Roberto Giovene di Girasole

La sentenza di condanna dell’Italia, emessa l’8 gennaio dalla seconda sezione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel caso Torreggiani ed altri c. Italia, costituisce un punto di svolta, almeno sotto il profilo del diritto, nella triste e mortificante vicenda della condizione dei detenuti nel nostro Paese. La novità non risiede tanto nella condanna per violazione dell’ art. 3 della Convenzione (divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti), in relazione alla mancanza dello “spazio minimo” che deve essere garantito a ciascun detenuto (già nel 2009 con la sentenza nel caso Suleimanovic c. Italia la Cedu aveva riconosciuto che la detenzione del ricorrente era avvenuta in condizioni tali da poter essere considerata trattamento inumano o degradante per il solo fatto di non aver avuto a disposizione uno spazio adeguato), quanto nella richiesta al Governo italiano di prevedere l’inserimento nel proprio ordinamento giuridico interno “di un ricorso o di un insieme di ricorsi”, al fine di rendere effettivo un correttivo, adeguato e sufficiente, al problema del sovraffollamento carcerario, conformemente ai principi della Convenzione, così come interpretati dalla Giurisprudenza della Corte.
La grave condizione di sovraffollamento carcerario che si registra in Italia, testimoniato dal gran numero di ricorsi pendenti con riguardo alla condizione dei detenuti nel nostro Paese, costituisce un problema strutturale tale da giustificare, secondo i giudici di Strasburgo, l’adozione della procedura della sentenza pilota. 
In attesa dell’adozione da parte del Governo italiano delle misure necessarie a porre rimedio alla situazione di grave sovraffollamento la Corte congelerà, per un anno a partire da quando la sentenza diverrà definitiva, l’esame di tutti i numerosi ricorsi concernenti la situazione di sovraffollamento delle carceri italiane.
La sentenza ha condannato lo Stato italiano a risarcire ciascuno dei ricorrenti, sul presupposto che gli stessi abbiano subito un danno morale certo, con la corresponsione di una somma di denaro, variabile da un minimo di 10 mila 600 euro ad un massimo di 23 mila 500 euro, tenuto conto della  durata della detenzione subita da ciascuno di essi in condizioni non conformi all’art. 3 della Convenzione, accordando inoltre euro mille e 500 euro ciascuno per le spese legali.
Occorre premettere che la convenzione europea dei diritti dell’uomo, resa esecutiva in Italia nel 1955, non contiene disposizioni che si riferiscono esplicitamente ai detenuti, tuttavia non v’è dubbio che le sue disposizioni vadano applicate soprattutto ai reclusi, proprio perchè i diritti in essa affermati sono garantiti ad ogni persona ed i detenuti, affidati alle cure dello stato, sono soggetti particolarmente vulnerabili.
Ma che cos’è la “procedura della sentenza pilota”? Si tratta di un procedura che viene attivata quando la Corte deve giudicare ricorsi analoghi, attinenti tutti alla stessa violazione della Convenzione da parte di uno Stato membro. La Corte, quando stabilisce di attivare la procedura della sentenza pilota, non si limita a valutare se sia sussistente o meno la violazione della convenzione ma identifica il problema “strutturale” e “sistematico” ed invita il Governo del singolo stato a porre in essere misure correttive .
Dunque la decisione della Corte  ha anche l’obiettivo di ridurre il numero di ricorsi analoghi da giudicare sollecitando l’adozione di misure concrete da parte dello stato italiano.
Certo la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo non avrà alcuna conseguenza immediata, considerato tra l’altro il periodo elettorale, ma costringerà il nuovo Parlamento ed il nuovo Governo a fare tutto quanto necessario per garantire “effettività” alle misure che saranno prese per ridurre il sovraffollamento delle nostre carceri. Va sottolineato che i giudici di Strasburgo hanno ritenuto del tutto inadeguate le misure prese dal Governo italiano con l’adozione della legge 199/2010 (il c.d. piano carceri) ed in particolare la previsione della detenzione domiciliare per tutte le pene inferiori ad un anno, anche se come residuo di maggior pena. La Corte ha rilevato infatti che tali misure sono  a termine e subordinate alla costruzione delle nuove carceri.
 La decisione della Corte è stata originata da un ricorso presentato da sette detenuti, con riferimento alla situazione delle carceri di Busto Arsizio e Piacenza. In particolare i quattro ricorrenti  detenuti a Piacenza ed i tre di Busto Arsizio lamentavano di aver occupato una cella di 9 mq, insieme ad altri due detenuti. Inoltre tutti i ricorrenti lamentavano limitazioni all’uso delle docce, derivanti dalla mancanza di acqua calda, ed i ricorrenti detenuti a Piacenza lamentavano anche una illuminazione naturale insufficiente. Il Governo italiano ha contestato la capienza dedotta dai detenuti a Piacenza, affermando che ciascuna cella misurava 11 mq, ma la Corte ha deciso evidenziando che l’Italia non ha addotto alcun elemento di prova a sostegno della tesi governativa.  
Deve essere sottolineato che i giudici di Strasburgo hanno rigettato tutte le eccezioni sollevate dal Governo italiano. In particolare, con riferimento all’osservazione che i ricorrenti non erano più in stato di detenzione oppure erano stati trasferiti in celle più spaziose, circostanze che ad avviso dei rappresentanti del governo italiano avrebbero fatto venire meno la qualità di vittime, la Corte richiama precedenti decisioni, in base alle quali il fatto che sia stata presa una misura favorevole al ricorrente non fa venir meno la qualità di vittima in relazione al periodo pregresso. Pertanto la circostanza che i ricorrenti fossero stati liberati o trasferiti in celle occupate solo da un’altra persona, dopo la presentazione dei ricorso alla Corte, non assume rilevanza ai fini della ricevibilità del ricorso.
Il Governo italiano ha poi osservato che i ricorrenti  non avrebbero previamente esperito tutti i ricorsi “interni” previsti dall’ordinamento penitenziario. Sul punto i giudici si sono soffermati ad esaminare il caso del ricorrente Ghisoni che aveva ottenuto una ordinanza favorevole dal Magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia, a seguito di un ricorso presentato ai sensi degli artt. 35  e 69 L 354/75,  rimasta “lettera morta per molti mesi”.  La sentenza osserva che pretendere che il ricorrente Ghisoni avrebbe dovuto ulteriormente richiedere l’esecuzione dell’ordinanza a lui favorevole a non meglio precisate “Autorità Giudiziarie interne”, come sostenuto dal Governo italiano, non è conforme alla convenzione. L’asserita necessità di ulteriori richieste da parte del detenuto finisce per costituire la prova dell’inutilità del ricorso del detenuto al magistrato di Sorveglianza e della inefficacia in concreto dell’ordinanza, che pure aveva riconosciuto che le condizioni della detenzione nel carcere di Piacenza erano inumane e degradanti, ordinando alle Autorità Amministrative competenti di fare tutto il possibile per rimediare con urgenza alla situazione. La convenzione infatti, secondo i giudici di Strasburgo, vuole che i singoli governi dimostrino in maniera convincente che i provvedimenti interni, presi a seguito dei ricorsi, abbiano un sufficiente grado di certezza di applicazione, non solo in teoria ma anche in pratica.
La sentenza ritiene poi “non rilevante” la questione circa la natura amministrativa o giurisdizionale del ricorso interno, rilevando come in alcune precedenti decisioni sia stato riconosciuto che anche ricorsi di natura amministrativa costituiscono rimedi interni efficaci (Norbert Sikorski c. Polonia n. 17599/05).
Il punto nodale, quindi, resta quello della efficacia del rimedio interno e non è possibile ipotizzare il moltiplicarsi dei ricorsi.
La Corte, pertanto, rilevato che in Italia l’inefficacia dei rimedi preventivi interni dipende dalla natura strutturale del fenomeno del sovraffollamento delle carceri, ritiene che “si possa facilmente comprendere” che l’amministrazione penitenziaria non sia in grado di mettere in esecuzione i provvedimenti dei giudici di Sorveglianza e di garantire ai detenuti condizioni di detenzione conformi alla Convenzione.
Nel merito della decisione, circa i parametri da seguire per valutare la sussistenza o meno dello spazio minimo vitale per ciascun detenuto, la Corte richiama esplicitamente le proprie decisioni pregresse, tra le quali la sentenza resa nel caso  Sulejmanovic c. Italia ( n. 22535/03, del 16 luglio 2009).
Si tratta, come è noto, di una sentenza con la quale il nostro Paese è stato condannato in relazione al sovraffollamento delle nostre carceri ed alle condizioni di detenzione del ricorrente, un cittadino bosniaco, che era stato detenuto dal gennaio 2003 al marzo 2003, insieme ad altri 5 detenuti, in una cella del carcere romano di Rebibbia di 16,20 mq, avendo quindi a disposizione uno spazio individuale di soli 2,7 mq. 
La Corte aveva condannato l’Italia in relazione al sovraffollamento, indipendentemente dalla prova da parte del ricorrente di avere avuto un danno fisico o psichico.
Conformemente ad alcuni precedenti giudiziari, riguardanti per lo più ricorsi presentati da detenuti nelle carceri russe, aveva ritenuto che uno dei parametri da utilizzare per ritenere la violazione dell’art. 3 della convenzione, relativo al divieto di trattamenti inumani e degradanti, in mancanza evidente dello spazio personale minimo, fosse costituito dalle prescrizioni del Comitato per la prevenzione della tortura (istituito dal Consiglio d’Europa nel 1987 nell’ambito della convenzione omonima) che ha fissato in 7 mq lo spazio minimo per ogni detenuto. E’ bene precisare subito che le regole dettate dal suddetto comitato non sono vincolanti, essendo in pratica una raccomandazione priva di efficacia cogente, ma nella sentenza del 2009 la Corte di Strasburgo le ha prese come un parametro di riferimento, sia pure non assoluto.
Nella sentenza Suleimanovic i giudici della Cedu avevano evidenziato che l’art. 3 della Convenzione sancisce uno dei valori fondanti le società democratiche, proibendo in termini assoluti non solo la tortura, ma anche le pene o i trattamenti inumani o degradanti dei detenuti, quali che siano i fatti commessi, imponendo agli stati di assicurasi che le condizioni della  detenzione siano compatibili con il rispetto della dignità umana e non superino livelli di sofferenza superiori a quelle inevitabili inerenti alla detenzione, dovendosi tenere conto, caso per caso, che siano assicurati;
1) salute;
2) benessere del detenuto.
Nel motivare la sentenza Suleimanovic, come detto espressamente richiamata nella decisione sul ricorso Torreggiani e Altri c. Italia, i Giudici di Strasburgo avevano sottolineato che non esiste un criterio certo per quantificare lo spazio che deve essere messo a disposizione di ogni detenuto, pur costituendo il sovraffollamento carcerario comunque un problema ex art. 3 della Convenzione.
Secondo la Giurisprudenza richiamata la quantificazione dello spazio minimo vitale può dipendere da numerosi fattori, quali:
1) la durata della privazione della libertà;
2) le possibilità di accesso alle passeggiate all’aria aperta;
3) le condizioni mentali  e fisiche del detenuto ( Trapachkine c. Russia);
4) la possibilità di utilizzare privatamente i servizi igienici;
5) l’aerazione disponibile;
6) l’accesso alla luce ed all’aria naturali;
7) la qualità del riscaldamento;
8) il rispetto delle regole sanitarie di base.
Nei casi in cui la mancanza di spazio è più grave la Corte lo ha ritenuto da solo elemento sufficiente per ritenere la violazione dell’art. 3 della convenzione (Makarov c. Russia, n. 15217/07 – Lind c. Russia, n. 25664/05 e numerosi altri, nei quali è stato dimostrato che i ricorrenti disponevano di meno di 3 mq a testa.
La decisione di condannare lo stato italiano nel caso Sulejmanovic è stata presa proprio in applicazione dei suddetti principi. La Corte ha accolto quel ricorso con riferimento ad un periodo di circa 3 mesi nel quale il ricorrente, insieme ad altri 5 detenuti, aveva diviso una cella di 16,20 mq, con un spazio a disposizione di soli 2,70 mq, ritenendo che la violazione dell’art. 3 della convenzione non sussistesse con riferimento al periodo precedente ed a quello successivo, nel quale la cella, di dimensioni analoghe, era stata condivisa con un numero inferiore di detenuti.
 La decisione di condanna dell’Italia venne presa quindi solo con riferimento alla mancanza dello spazio minimo, in quanto il ricorrente non aveva denunziato alcun problema relativo al riscaldamento, oppure alla possibilità di accesso ai servizi igienici, essendo stato invece dimostrato che alla cella era annesso un sevizio di 5 mq circa, e non aveva neanche indicato con precisione le ripercussioni delle pessime condizioni detentive sul suo stato di salute, limitandosi a lamentare di “essere stato gravemente leso nella sua integrità fisica e psichica”.
Nella sentenza dell’8 gennaio 2013 i giudici rilevano che tutti i ricorrenti hanno dimostrato di avere avuto uno spazio di soli 3 mq e che la mancanza di acqua calda alle docce, e di luce ed aria sufficiente nel carcere di Piacenza, abbiano comportato una “sofferenza supplementare”.
Per concludere queste brevi note credo che sia opportuno riportare alcuni drammatici dati statistici, senza ulteriori commenti.
Il nostro paese è ai primi posti in Europa per numero di condanne per violazioni dei diritti dell’uomo.
Secondo le ultime statistiche, tratte dal sito del Ministero della Giustizia, nelle nostre carceri al 31.12.2012 c’erano 65701 detenuti (23492 stranieri e 2804 donne), a fronte di una capienza regolamentare di 47040 detenuti.
I suicidi nel 2012 sono stati circa 60.
Nei primi 7 giorni del 2013  già due detenuti si sono tolti la vita.

Roberto Giovene di Girasole
Avvocato del Foro di Napoli - Associato "Il Carcere Possibile Onlus", Camera Penale di Napoli