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La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condanna l’Italia (ancora una volta) per il problema del sovraffollamento delle carceri.
Con sentenza resa l’8 gennaio 2013 nel caso Torreggiani ed altri c. Italia (ricorso n. 43517/09), la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha constatato, all’unanimità, la violazione dell’articolo 3 della Convenzione (Divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti).
La particolarità di tale pronuncia, rispetto ai precedenti sulla questione (il riferimento va, ex multis, al caso Sulejmanovic c. Italia (1), sentenza del luglio 2009, ricorso n. 22635/03) risiede nell’iter processuale adottato per addivenire ad essa stessa, ovvero, la procedura della sentenza pilota, prevista e disciplinata, oggi, dall’art. 61 del Regolamento della Corte.
Sul punto vale la pena soffermarsi, seppur brevemente.
La norma, precisamente, altro non è che la codificazione positiva di una prassi introdotta dal Giudice di Strasburgo per far fronte alle situazioni da cui emergano disfunzionalità sistematiche o strutturali a livello nazionale, e che, di conseguenza, possano generare un gran numero di ricorsi sostanzialmente identici nelle doglianze.
Tenuto conto dell'esperienza della Corte nell'applicare tale procedura in diversi paesi e situazioni, la novella stabiliva una precisa struttura normativa per le sentenze pilota.
Siffatta codificazione, formalmente in vigore dal 31 marzo 2011, recepiva l'invito espresso nella dichiarazione finale della Conferenza di Interlaken del Febbraio 2010.
In quella sede, il consesso plenario delle Alte Parti Contraenti, invitava la Corte a "sviluppare norme chiare e prevedibili per ciò che concerne la procedura della sentenza pilota in relazione alla selezione delle richieste, la procedura da seguire ed il trattamento dei casi sospesi".
In merito al contenuto della norma, è opportuno evidenziarne alcuni punti fondamentali:
- la Corte consulterà il/i ricorrente/i ed il/i Governo/i dello/degli Stato/i in questione e tutte le altre parti coinvolte prima di avviare la procedura;
- la Corte identificherà il tipo di misure generali che lo Stato in questione dovrà adottare a livello nazionale, potendo stabilire un periodo di tempo entro il quale esso debba applicare tali misure; e potrà rinviare i casi simili in attesa si misure di riparazione;
- qualsiasi composizione amichevole deve indicare anche le misure generali e rinviare per gli altri/ potenziali ricorrenti;
- laddove uno Stato manchi di adottare le misure convenute (laddove non si conformi alla sentenza pilota), la Corte potrà riprendere la trattazione dei casi sospesi.
Sotto un profilo teleologico, d’altro canto, la procedura della sentenza pilota si pone, precipuamente, tre obiettivi di massima: assistere i 47 Stati Europei che hanno ratificato la Convenzione per i Diritti Umani nel risolvere i problemi sistematici o strutturali a livello nazionale; provvedere ad un esame più celere dei casi in questione; permettere alla Corte Europea di affrontare in maniera più efficiente e tempestiva i procedimenti, riducendo il numero di casi analoghi, spesso complessi, che necessitano di un esame dettagliato.
Stante l’appena tratteggiato quadro normativo, tornando al caso in esame, la Corte, considerata la natura indiscutibilmente strutturale e sistematica del problema del sovraffollamento carcerario in Italia, ha ritenuto di voler adottare tale strumento per fronteggiare il crescente numero di ricorsi sottoposti alla sua attenzione in subiecta materia, tutti suscettibili di vedersi conclusi con la constatazione di una violazione dell’art. 3 CEDU.
Venendo ora ai fatti che hanno originato la pronuncia di cui trattasi, deve premettersi che i relativi ricorsi furono presentati, nel 2009, dai Sigg. Torreggiani, Bamba, Biondi, Sela, El Haili, Hajjoubi e Ghisoni, detenuti nei carceri di Busto Arsizio e di Piacenza.
Ciascuno dei ricorrenti, in particolare, lamentava di trovarsi costretto a condividere la propria cella di 9 mq con altri due detenuti, avendo dunque a propria disposizione uno spazio personale di appena 3 mq; si dolevano, inoltre, della frequente mancanza di acqua calda e di illuminazione adeguata.
Il 10 aprile 2010, in pendenza dunque del ricorso dinanzi la Corte Europea, il Sig. Ghisoni, congiuntamente ad altri due compagni di cella, presentava un’istanza al Magistrato di Sorveglianza di Reggio Emilia ove si stigmatizzavano le condizioni inumane cui erano sottoposti i detenuti del carcere di Piacenza, evidenziando, altresì, una disparità di trattamento con altri soggetti ristretti presso diverse strutture detentive.
Con tre distinte ordinanze (rispettivamente del 16, 20 e 24 agosto 2010), il magistrato accolse i reclami degli istanti, evidenziando come i tre detenuti fossero di fatto costretti a condividere una cella concepita per una sola persona; sottolineava, inoltre, come, all’epoca dei fatti, la struttura di Piacenza ospitasse 415 detenuti, a fronte di una capienza standard di 178 prigionieri, e di una capienza massima di 376.
Facendo esplicito richiamo al succitato caso Sulejmanovic, il giudice dunque addiveniva alla constatazione, obbligata diremmo, della violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea, rilevando inoltre che il Sig. Ghisoni ed i suoi due compagni, fossero stati vittime di un trattamento discriminatorio in relazione ad altri soggetti detenuti in condizioni più favorevoli.
I provvedimenti furono poi trasmessi alla direzione del carcere di Piacenza, al Ministro della Giustizia, ed al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, affinché ciascuno di essi, nei limiti delle loro competenze, potesse adottare tutte le misure urgenti e necessarie.
In realtà, l’unico provvedimento adottato all’esito del procedimento domestico, fu il trasferimento del solo Sig. Ghisoni in una cella progettata per due persone.
L’8 gennaio 2013, come dianzi anticipato, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, riuniti i ricorsi che in un primo momento erano stati presentati separatamente, ha concluso all’unanimità per la violazione dell’art. 3 della Convenzione.
La decisione, ad un primo sguardo, si apprezza subito per l’attenta ricostruzione della questione del sovraffollamento carcerario dal punto di vista della normativa interna ed internazionale, della prassi giudiziaria, delle risultanze emergenti dai rapporti provenienti dai diversi organismi internazionali che si sono interessati a vario titolo della vicenda.
Si richiama, ad esempio, una importante, per quanto isolata, ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Lecce che, riconosciute fondate le doglianze dell’istante (2) , sulla scorta delle direttive impartite dal Comitato per la prevenzione della tortura istituito in seno al Consiglio d’Europa e della giurisprudenza della Corte, per la prima volta condannava lo Stato Italiano al pagamento di € 220 a titolo di risarcimento del danno esistenziale cagionato al detenuto (3).
Ampi riferimenti vengono poi operati in relazione ai rapporti del Comitato Europeo per la prevenzione della Tortura (4), ed a due raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, concernenti il sovraffollamento delle prigioni e la c.d. inflazione carceraria (5) .
Con riguardo alla ricevibilità dei ricorsi, il Governo Italiano ha eccepito la carenza dello status di “vittima”, ai sensi dell’art. 34 CEDU, in capo ai ricorrenti, nonché il mancato previo esaurimento delle vie di ricorso interne elevato dall’art. 35 CEDU ad indefettibile condizione di ricevibilità.
Sulla prima eccezione, la Corte si limita a richiamare la propria consolidata giurisprudenza secondo la quale una decisione od una misura in qualche modo favorevole al ricorrente – nel caso di specie, il trasferimento del Sig. Ghisoni in altra cella - non è di per sé sufficiente a far decadere lo status di vittima di una violazione della Convenzione (6)
Anche l’eccezione per il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne viene respinta dalla Corte, con motivazione saldamente ancorata al sostrato giurisprudenziale consolidatosi negli anni.
In particolare, la questione sostenuta dal Governo verteva sull’esperibilità concreta dei rimedi ex artt. 35 e 69 della l. 354/1975 per i ricorrenti diversi dal Ghisoni – l’unico, invero, ad aver intrapreso quest’ultimo iter a livello nazionale.
In realtà, ricorda la Corte, affinché uno strumento giurisdizionale possa essere considerato una via di ricorso interno da esperirsi obbligatoriamente per il rispetto delle condizioni poste all’art. 35 CEDU, questo deve essere effettivo, efficace, sostanziale.
La natura stessa del problema in questione, lo si è detto più volte, strutturale e sistematico, impedisce essa stessa l’effettività di qualsivoglia rimedio giurisdizionale; le amministrazioni penitenziarie, anche prescindendo dal caso di specie, non saranno mai, secondo il Giudice internazionale, in grado di ottemperare ai provvedimenti della magistratura di sorveglianza, garantendo ai detenuti delle condizioni di vita conformi al dettame della Convenzione.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte non ritiene che i rimedi previsti agli artt. 35 e 69 O.P. siano effettivi ed efficaci, né che il loro concreto esperimento possa di fatto impedire il perpetrarsi delle violazioni dei diritti umani fondamentali dei detenuti; con tale motivazione, dunque, anche la seconda eccezione del Governo viene rigettata.
Entrando nel merito della questione, la Corte ricorda anzitutto che la detenzione non priva affatto i detenuti dei propri diritti fondamentali; ed anzi, al contrario, la persona ristretta potrebbe aver bisogno di una protezione maggiore attesa la vulnerabilità della propria situazione, che lo vede sotto la totale responsabilità dello Stato.
Alla luce di siffatto principio, ne deriva che l’art. 3 CEDU pone in capo agli Stati un obbligo positivo consistente nel dovere di assicurare a tutti i detenuti condizioni di vita compatibili con il rispetto della dignità umana, e di garantire che l’afflittività della pena detentiva non ecceda i livelli minimi necessari ed inevitabili.
In situazioni di sovraffollamento delle carceri, l’elemento centrale da prendere in considerazione diventa dunque lo spazio vitale personale disponibile per ciascun soggetto; come regola generale, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura individua in 4 mq lo spazio minimo da garantire ad ogni detenuto.
Laddove invece la ristrettezza degli spazi non sia elemento di per sé sufficiente ad affermare la violazione dell’art. 3, ulteriori elementi, sempre però attinenti alle effettive condizioni di vita negli istituti penitenziari, andranno vagliati attentamente; tra questi, a titolo esemplificativo, la pronuncia qui annotata ricorda la possibilità di usufruire di servizi igienici in condizioni di privacy, l’accesso alla luce naturale, la qualità del riscaldamento ed il rispetto delle esigenze sanitarie di base.
Nell’applicare gli appena citati principi generali al caso di specie, la Corte risolve, preliminarmente, la questione relativa all’onus probandi.
Nel corso del contenzioso dinanzi il giudice di Strasburgo, difatti, sono sorte discrepanze tra le affermazioni dei ricorrenti e quelle del governo in merito alle effettive dimensioni delle celle (9 mq per i primi, 11 per il secondo).
Ebbene, proprio richiamando la massima riportata pocanzi (7) , la Corte rovescia il brocardo affirmanti incumbit probatio, sull’ulteriore presupposto che solo e soltanto il Governo è in possesso della documentazione necessaria per confermare incontrovertibilmente le proprie adduzioni; non avendo quest’ultimo prodotto alcun documento a sostegno della diversa misurazione degli spazi, devono dunque ritenersi veritiere le affermazioni dei ricorrenti (8) .
In buona sostanza, si considera pacifico che ciascuno di costoro dispone di uno spazio personale di 3 mq, ridotto ancora, peraltro, dalla presenza di mobili e suppellettili.
Tale situazione, già di per sé contraria alle indicazioni del CPT – che individua in 4 mq lo spazio minimo necessario – è aggravata dalla cronica mancanza di acqua calda, riscaldamento, illuminazione adeguata.
Rebus sic stantibus, la Corte non può che concludere per la violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti Umani.
Considerata la natura strutturale del problema, confermata esplicitamente anche a livello nazionale dalla dichiarazione dello stato di emergenza intervenuta nel 2010, e data la non opposizione delle parti interessate, la Corte ritiene di dover formulare le proprie conclusioni sotto il profilo dell’art. 46 nelle forme della sentenza pilota, sulla cui ratio e forma si è già ampiamente detto supra.
Segnatamente, pur nel pieno rispetto dell’autonomia statale nella scelta delle misure da porre in essere per rispettare i dicta europei, dal dispositivo della sentenza traspaiono perplessità circa gli strumenti sinora approntati dalla Repubblica italiana per fronteggiare la situazione – il c.d. piano carceri, e la l. 199/2010 sulle misure alternative alla detenzione.
Il vero nodo gordiano da sciogliere – la Corte non lo dice espressamente ma lo lascia intendere a più riprese – rimane l’eccessivo ricorso alla detenzione inframuraria e la scarsa valorizzazione delle misure alternative ad essa; sul punto, gli stessi giudici internazionali stigmatizzano il dato allarmante secondo cui il 40% degli attuali detenuti sono ristretti in custodia cautelare in attesa di essere giudicati.
Lungi dunque dall’essere l’estrema ratio, la detenzione inframuraria sembrerebbe essere la regola nell’attuale ordinamento italiano, in aperto contrasto con le numerose raccomandazioni emanate dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa in materia, più volte citate in sentenza (9).
Dal punto di vista delle vie di ricorso interne, pur senza indicare apertamente le modifiche legislative necessarie, la Corte reitera quanto in precedenza affermato circa l’inefficacia dei rimedi articolati dal combinato disposto degli artt. 35 e 69 l. 354/1975; né, d’altronde, lo Stato italiano ha dimostrato l’esistenza di un diverso rimedio giurisdizionale che possa interrompere la violazione dei diritti convenzionalmente sanciti.
In ogni caso, quale che sarà la decisione del Governo sul punto, la Corte si premura di avvertire che l’eventuale previsione di un rimedio meramente risarcitorio non sarà considerato sufficiente esecuzione della sentenza che qui ci occupa.
Tutto ciò premesso, la Corte conclude affermando che:
- Lo Stato italiano dovrà, entro un anno a decorrere dalla data in cui questa sentenza diverrà definitiva ai sensi dell’art. 44 CEDU, mettere in atto una serie di misure effettive ed efficaci per risolvere la questione del sovraffollamento carcerario, nel pieno rispetto di tutti i diritti umani fondamentali come sanciti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo ed interpretati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo;
- in attesa dell'adozione di tali misure, la Corte rinvia la trattazione di tutti i casi aventi ad unico oggetto il sovraffollamento carcerario al termine di cui sopra, pur riservandosi di diritto, in qualsiasi momento, di dichiarare irricevibile o di cancellare dal ruolo i ricorsi per i quali intervenga una composizione amichevole od una soluzione con altri mezzi, ai sensi degli artt. 37 e 39 CEDU.
A questo punto, dunque, la parola torna allo Stato Italiano.
DOTT. MATTEO DE LONGIS
Componente Organo Collegiale Delegazione di Benevento
de “Il Carcere Possibile Onlus”
Per una breve ricostruzione del caso cfr. Valentina Benigni, Sulejmanovic c. Italia, in Diritti Umani in Italia, 2010 [online
A.S. divideva una cella, sprovvista di riscaldamento ed acqua calda, della superficie di 11 mq, toilette inclusa, con altri due detenuti; il letto si trovava ad appena 50 cm da terra, sul quale, di fatto, si vedeva costretto a passare circa 20 ore al giorno stante l’assenza di qualsivoglia programma di attività sociali organizzate all’esterno.
Esemplificativamente, cfr. Dalban c. Romania [GC>, 28 settembre 1999, n. 28114/95
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