06-04-2014
GUIDA AI DIRITTI ED AI DOVERI DEI DETENUTI SECONDA EDIZIONE: Nella sezione UTILITA' del sito č disponibile la seconda...
 
IL TEMA DEL CARCERE ALL'INAUGURAZIONE DELL'ANNO GIUDIZIARIO
La parte della relazione tenuta oggi dal Primo Presidente della Corte di Cassazione che ha interessato le problematiche relative alla detenzione
 

RoMA 26 GENNAIO 2012__________Il sovrappopolamento e la inadeguatezza delle strutture carcerarie continuano ad essere piaghe aperte. Vero è che nel 2011 si è assistito a una stabilizzazione nel numero delle presenze e, anzi, raffrontando i dati riferiti alla fine dell'anno, a una riduzione di oltre mille unità tra il 2010 e il 2011 (67.961 presenze il 31 dicembre 2010, 66.879 il 31 dicembre 2011). Diremo tra un momento qual è la plausibile spiegazione di un bilancio una volta tanto non "in rosso". Però subito va detto che sarebbe fuorviante se da tale stabilizzazione si volesse dedurre una attenuazione del disagio provocato dal sovraffollamento. La cronicità di una malattia, tanto più di una malattia gravissima, qual è il sovraffollamento, non la attenua, tutt'altro. Il sovraffollamento non può, d'altro canto, essere guardato in una prospettiva statica. Evidentemente non è la stessa cosa rimanere in una cella inabitabile per qualche giorno o per anni. Tale punto di vista trova riscontro nella giurisprudenza della Corte Edu allorché - richiamando la Raccomandazione Rec(2006)2 del Comitato dei ministri agli stati membri sulle regole penitenziarie europee (adottata l'11 gennaio 2006, nella 952a riunione dei Delegati dei ministri), dedicata alle condizioni detentive - osserva che l'articolo 3 della Convenzione sancisce un valore fondamentale delle società democratiche e "impone allo Stato di assicurarsi che le condizioni detentive di ogni detenuto siano compatibili con il rispetto della dignità umana e "che un'eccessiva sovrappopolazione carceraria pone di per sé un problema sotto il profilo dell'articolo 3 della Convenzione"76, ma l'adeguatezza dello spazio Sent. n. 47095/99, Kalachnikov c/Russia.personale che deve essere concesso ad ogni detenuto ai sensi della Convenzione "può dipendere da numerosi fattori, quali la durata della privazione della libertà, le possibilità di accesso alla passeggiata all'aria aperta o le condizioni mentali e fisiche del detenuto77. Non è possibile considerare attenuata, sulla base della stabilizzazione del numero dei detenuti nell'anno trascorso, la inaccettabilità della condizione di sovraffollamento, causa non unica, ma in questo momento prevalente, della condizione di grave anomalia del sistema penitenziario italiano. Al contrario occorre ripetere che ridurre 67 mila detenuti in un condizioni logistiche adeguate a 45 mila persone è palesemente incompatibile con i principi di cui al terzo comma dell'art. 27 della Costituzione e dell'art. 3 Cedu. Quei principi non possono ammettere deroghe nemmeno in nome delle ben note difficoltà economiche. Siamo di fronte a un limite che attiene al senso di umanità e dunque a quel minimo che va rispettato perché il nostro Paese conservi il suo posto tra le nazioni civili. Come uscire da una condizione non tollerabile? È innegabile la necessità di provvedere a strutture logistiche capaci di rendere il sistema adeguato ai fenomeni di criminalità la cui portata e pericolosità non vanno certo sottovalutati. A tale proposito duole rilevare la scarsezza dei risultati del Piano straordinario approvato dal Consiglio dei Ministri il 13 gennaio 2010, quando veniva deliberata la dichiarazione dello stato di emergenza del sistema penitenziario. Non sarà però l'aumento, pur necessario, dei posti-carcere che condurrà il sistema al punto di equilibrio. Ciò che è indifferibile è, come già anticipato, da un lato la riduzione del ricorso alla custodia cautelare in carcere, anche, ma non solo, con la riduzione del fenomeno delle cd. "porte girevoli" (e in tal senso si muove il decreto-legge del 22 dicembre 2011, n. 211) e dall'altro l'implementazione di misure alternative al carcere dissuasive ed efficaci nell'ottica della risocializzazione e, dunque, della riduzione della recidiva. Non sono obiettivi utopistici. Si tratta, al contrario, dell'unica prospettiva realistica che porrà il nostro Paese a fianco di quelli che realizzano alti livelli di sicurezza senza cadere nell'abbaglio secondo cui "maggiore sicurezza" significa "più carcere". Progetti come quello, ad esempio, di "MARE APERTO" (acronimo di "Migliorare le Attività di Reinserimento degli Affidati per Trasmettere Opportunità"), di cui si parla sin dal 2009, meriterebbero dunque più ampio sostegno. 77 Sent. n.  36898/2003  36898/2003  del 19 luglio 2007, Trepachkine c/Russia, Sent. n. 22635/2003 del 16 luglio 2009; Sulejmanovic c. Italia.

È opportuno tornare per un momento sul risultato della stabilizzazione del numero dei detenuti e della riduzione di mille unità se il raffronto si colloca al 31 dicembre 2010. Il risultato si spiega richiamando la legge n. 199 del 2010 - già ricordata nella relazione dello scorso anno - che, entrata in vigore il 16 dicembre 2010, è stata applicata in oltre 4.300 casi a detenuti che sono stati scarcerati per scontare nelle rispettive abitazioni l'ultimo anno di pena detentiva. Ed è stato valutato in circa altri 900 casi il numero di coloro che in forza della medesima legge non sono entrati in carcere avendo da scontare una pena residua non superiore a 12 mesi. Come è noto, la citata legge 199 non è una soluzione indulgenziale, non comporta l'azzeramento della condanna, né funziona in forza di automatismi. Spetta al magistrato di sorveglianza adottare la decisione all'esito di controlli seppur semplificati. Va dato atto che nell'esercizio del difficile compito di gestire questa nuova misura la magistratura di sorveglianza, pur senza alcun incremento di organico né di dotazioni strumentali, ha operato con saggezza come è attestato dalla minima percentuale di insuccessi. La prudente gestione della misura e il suo complessivo buon esito hanno certamente concorso nell'indurre il legislatore ad ampliare da 12 a 18 mesi la portata della misura con la già ricordata decretazione di urgenza in vigore dal 23 dicembre scorso. Secondo previsioni di fonte ministeriale ciò comporterà l'uscita dal circuito carcerario di altre 3.000/3.500 persone. Le rilevazioni statistiche sinora ottenute evidenziano tuttavia differenze talora inspiegabili tra ufficio ed ufficio, atteso che si va dalle 540 applicazioni della Lombardia, dalle quasi 500 della Sicilia e dalle oltre 400 del Lazio sino a poche decine di applicazioni in altre regioni. L'emergenza carceraria chiama dunque in causa non soltanto il legislatore e il governo, ma anche i giudici. Il difetto endemico del nostro sistema, che segna spesso una distanza temporale eccessiva tra condanna ed esecuzione della pena, comporta sovente, per paradosso, da un lato la spinta ad anticipare in corso di processo il ricorso al carcere al fine di neutralizzare una pericolosità sociale, ancora soltanto ipotizzata e che scarsamente è misurata sul tempo trascorso; dall'altro la tentazione di rifiutare che residui di pena, sovente falcidiata anche da condoni, possano essere espiati in forma alternativa: al fine, in entrambi i casi, di offrire una risposta illusoriamente rassicurante alla percezione collettiva di insicurezza sociale, che finisce così con il contagiare l'ambito giudiziario, determinando guasti sulla cultura del processo e delle garanzie. Le anomale condizioni del carcere ripropongono con forza il tema della tutela dei diritti delle persone recluse.

Dopo la fondamentale sentenza n. 26 del 1999 della Corte costituzionale (che ha dichiarato la illegittimità costituzionale degli artt. 35 e 69 Ord. Pen., "nella parte in cui non prevedono una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell'amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale") e la sentenza delle Sezioni unite penali n. 25079 del 26 febbraio 2003 (con la quale, in materia di colloqui e conversazioni telefoniche dei detenuti, s'individuava il procedimento di cui all'art. 14-ter Ord. Pen. quale modello da adottarsi nella decisione dei reclami avverso atti dell'amministrazione penitenziaria potenzialmente lesivi dei diritti dei detenuti), e nell'assenza di interventi normativi organici, la magistratura di sorveglianza è intervenuta più volte in funzione di garanzia dei diritti dei reclusi e di recente anche in relazione al malessere provocato dal sovraffollamento, riconoscendo che tale condizione, in concorso di altre, provoca un danno contra ius e dunque azionabile in sede giurisdizionale. Non è qui il caso di prendere posizione su tale questione, ancora soggetta al vaglio di questa Corte di legittimità. Occorre peraltro riaffermare che, se il carcere non può essere un terreno avulso dallo Stato di diritto, occorre che il magistrato, cui spetta di vigilare sulla coerenza tra norme di legge e regime penitenziario, eserciti con pienezza tale competenza e ne veda riconosciuti i risultati dall'Amministrazione, che non può arrogarsi di decidere qual è il diritto, essendo la parte nei confronti della quale il diritto viene fatto valere. Il carattere vincolante per l'Amministrazione dei provvedimenti del magistrato di sorveglianza è d'altronde chiaramente ricavabile dall'art. 69, comma 5, ultimo periodo, Ord. Pen., in base al quale il magistrato di sorveglianza "impartisce, inoltre, nel corso del trattamento, disposizioni dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli internati". E tanto ricordava già Corte cost., sent. n. 266 del 2009, segnalando che "la parola "disposizioni", nel contesto in cui è inserita, non significa segnalazioni (tanto più che questa modalità d'intervento forma oggetto di apposita previsione nel primo comma dell'art. 69), ma prescrizioni od ordini, il cui carattere vincolante per l'amministrazione penitenziaria è intrinseco alle finalità di tutela che la norma stessa persegue". Nell'ambito degli elementi che fanno sperare che sia matura una decisa svolta non può essere trascurato di rilevare la crescita di un atteggiamento di attenzione rivolta al mondo penitenziario. Si è percepita, nell'anno trascorso, una maggiore consapevolezza del fatto che l'argomento carcere non può più essere trascurato né rinviato. Di ciò si è fatto interprete anzitutto il Capo dello Stato che ha destinato al problema carcerario la sua attenzione in una pluralità di occasioni, a cominciaredal ricordato intervento del 28 luglio 2011 sino al discorso dell'ultimo dell'anno rivolto agli italiani. Il nuovo Ministro della giustizia, dal canto suo, ha dedicato al tema carcere i suoi primi interventi, ed ha pronunciato parole importanti nella citata Relazione al Parlamento del 17 gennaio scorso, osservando tra l'altro che i soggetti detenuti nelle nostre carceri "soffrono modalità di custodia francamente inaccettabili" per un Paese civile quale vuole e deve essere il nostro. Al di là di questi importanti segnali, sembra evidente che cresce la consapevolezza che il nodo della pena e della sua esecuzione rappresenta un problema della società che riguarda tutti e di cui con sempre maggiore responsabilità è chiamata a farsi carico la magistratura di sorveglianza. Sciogliere questo nodo è una esigenza di civiltà che si potrà realizzare, anche in tempi brevi, attraverso un progetto capace di unificare la volontà della politica, la cultura degli studiosi, le energie della amministrazione e il tesoro di esperienze della magistratura.

(dalla relazione orale)
C’è una quarta priorità su cui il Governo si è particolarmente impegnato e che voglio subito sottolineare: la tragica situazione car­ceraria, una realtà «che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sof­ferenza quotidiana – fino all’impulso a togliersi la vita – di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo». Queste le parole angosciate con cui il Presidente della Repubblica ha sollecitato la coscienza morale di tutto il Paese, nel convegno svoltosi in un’aula parlamentare il 28 luglio scorso, a cui avvertimmo il dovere etico e istituzionale di partecipare, esprimendo l’impegno dei giudici a tenere in continua attenzione – anche e so­prattutto nel momento di adozione, come estremo rimedio, dei prov­vedimenti giurisdizionali carcerari – le concrete condizioni di vita delle persone detenute, per garantirne il più possibile la libertà e per rispettarne sempre la dignità. Il Ministro Severino ha dedicato al carcere i suoi primi inter­venti e ha pronunciato parole importanti nella Relazione al Parla­mento della settimana scorsa. Stipare 68.000 detenuti in condizioni logistiche adeguate a 45 mila persone è palesemente incompatibile con i principi affermati dall’art. 27 della nostra Costituzione e dall’art. 3 della Convenzione per i diritti umani, principi che non possono ammettere deroghe nemmeno in nome delle difficoltà economiche. Siamo di fronte a un limite che attiene al senso di umanità e, dunque, a quel minimo che va rispettato perché il nostro Paese conservi il suo posto tra le nazioni civili. 
Non sarà l’aumento, pur necessario, dei posti-carcere che con­durrà il sistema al punto di equilibrio. Ciò che è indifferibile è, da un lato, la riduzione del ricorso alla pena carceraria e alla custodia cau­telare in carcere, e, dall’altro, l’aumento di misure alternative al car­cere. Non sono obiettivi utopistici. Si tratta, al contrario, dell’unica prospettiva realistica che porrà il nostro Paese a fianco di quelli che realizzano alti livelli di sicurezza senza cadere nell’abbaglio secondo cui “maggiore sicurezza” significa “più carcere”. 
L’emergenza carceraria chiama perciò in causa innanzitutto il legislatore, che pare troppo condizionato dalla perdurante conce­zione panpenalistica che assegna alla risposta penale la sanzione di ogni comportamento deviante, quando invece è indispensabile un drastico sfoltimento delle previsioni penali, da attuare con una inci­siva depenalizzazione o, più radicalmente, con interventi di decri­minalizzazione. 
Va anche attentamente considerata l’opportunità di un signi­ficativo ampliamento della procedibilità a querela per tutti i casi in cui l’offesa derivante dalla condotta antisociale ricada prevalente­mente su interessi individuali.
Urgente attenzione va dedicata alle misure cautelari e pre-cau­telari. L’elenco dei reati previsti per i quali è imposto o consentito l’arresto in flagranza, va radicalmente rivisto e ridotto. Per limitare il fenomeno delle c.d. “porte girevoli” preso in considerazione dal recente decreto legge del 22 dicembre scorso, è opportuno estendere la previsione dell’art. 121 disp. att. c.p.p. (casi in cui il pubblico mi­nistero deve ordinare l’immediata liberazione dell’arrestato o del fer­mato) a tutte le ipotesi in cui il pubblico ministero ritenga di non richiedere al giudice l’applicazione di “misure detentive”; mentre attualmente non è imposto un simile dovere di immediata scarcera­zione qualora il p.m. richieda l’applicazione di misure coercitive di­verse da quelle detentive. 
È necessario che il legislatore assuma sul serio la natura di ex-trema ratio della custodia in carcere, ancora recentemente riaffer­mata dalla Corte costituzionale (sent. n. 231 del 2011), e la preveda soltanto in presenza di reati di particolare allarme sociale, e, so­prattutto, la inibisca quando la condotta criminosa presa in consi­derazione sia risalente nel tempo e non accompagnata da manifestazioni concrete di attuale pericolosità sociale. 
La questione chiama ovviamente in causa anche i giudici. Il difetto endemico del nostro sistema, a causa dell’eccessiva distanza temporale tra condanna ed esecuzione della pena, comporta sovente la spinta ad anticipare, in corso di processo o di indagini, il ricorso al carcere al fine di neutralizzare una pericolosità sociale, anche se soltanto ipotizzata, al fine di offrire una risposta illusoriamente ras­sicurante alla percezione collettiva di insicurezza sociale, che finisce così con il contagiare l’ambito giudiziario, determinando guasti sulla cultura del processo e delle garanzie. 
L’appello ai giudici a essere innanzitutto garanti della libertà e della dignità delle persone, va accompagnato da un altrettanto fermo appello all’opinione pubblica e, soprattutto, a chi ha re­sponsabilità di informarla, formarla e orientarla. Non si può a giorni alterni, sotto la spinta di diverse emozioni, invocare la presunzione di innocenza contro i provvedimenti di cautela proces­suale per taluni indagati e indignarsi per la mancata adozione di misure carcerarie per altri indagati, anche in assenza dei presup­posti di legge.