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"IL MATTINO", 12 giugno 2010 - IL VERO INFERNO, LE NOSTRE CARCERI - di ALDO MASULLO
Il capo del Governo lamenta che «governare è un inferno». Ma è liberissimo di andarsene, dunque la sua metafora è solo una narcisistica civetteria. Letteralmente all’inferno è invece chiunque sia recluso in un carcere italiano. Uscirne non gli è possibile se non uccidendosi. Che nell’anno in corso, neppur giunto ancora alla sua metà, nelle carceri italiane siano già avvenuti ben 29 suicidi certifica come per la classe dirigente la Costituzione, che nelle parole del capo del Governo sembra una soffocante catena, sia inconsistente carta straccia. Sarebbe mai possibile l’incessante stillicidio di atti di violenza estrema contro se stessi nelle patrie galere, se qui le pene detentive non fossero proprio quei «trattamenti contrari al senso di umanità», che l’art. 27 della Costituzione solennemente vieta ?
Non è poi la violazione costituzionale ancora più scandalosa, se si pensa che a tali trattamenti si trovano sottoposti anche i reclusi non ancora giudicati in primo grado, dunque in ogni caso innocenti, visto che la stessa norma costituzionale stabilisce che «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva»? Sottoporre a pene «inumane» un reo è crudeltà contraria alla legge, ma trattare inumanamente un innocente è un arbitrio infame. Il contenuto della famosa lettera del 1851 di lord Gladstone, il quale definiva le prigioni del regno delle Due Sicilie «negazione di Dio», sembra sia stato più tardi smentito dallo stesso autore, che lo avrebbe spiegato come un falso, confezionato ad uso del governo inglese per la propaganda antiborbonica. Purtroppo, se qualcuno usasse la terribile definizione per le nostre carceri, dove in strutture spesso fatiscenti sono ammassati reclusi in numero doppio della capienza, non si potrebbe parlare di falso ! Quel che più amaramente colpisce nella vicenda è la generalizzata insensibilità, la malattia mortale dell’indifferenza dinanzi all’illegalità inumana. Solo l’instancabile pattuglia radicale e pochi altri isolati, nutriti di pietà civile o religiosa, richiamano con tutte le loro forze l’attenzione sulla situazione che fa della reclusione non il ragionevole male socialmente necessario di una pena finalizzata alla cosiddetta «rieducazione», come appunto l’art. 27 della Costituzione inutilmente prescrive, bensì la tortura più terribile, consistente nel sistematico abbrutimento della vita quotidiana. Al di là del diritto capillarmente calpestato e della comunicazione negata tra i cittadini e le istituzioni, come altra volta ho avuto occasione di scrivere, ciò che in definitiva disarticola la coesione civile, riducendo il popolo a «volgo disperso che nome non ha», è il senso che il cittadino avverte di non essere «curato» dal pur democratico potere. Il detenuto, colpevole o innocente, è un uomo strappato in nome della legge alla responsabile possibilità di gestire la sua vita quotidiana. Di lui lo Stato nel legalmente sequestrarlo si è assunto, con la custodia esclusiva, la tutela della salute fisica e mentale. Se così frequenti sono i suicidi di detenuti, spesso giovani, ciò vuol dire che l’assunta custodia non è stata debitamente esercitata, ma soprattutto che la qualità delle condizioni di vita imposte è tale da suscitare nei reclusi il sentimento, demoralizzante fino alla disperazione, di essere membra tagliate via dal vivente corpo sociale, rifiuti senza valore, inesistenze di cui non ha senso avere «cura». È evidente che, se organi dello Stato in base a legittime norme possono in certi casi sospendere la libertà di questo o quel cittadino, con ciò stesso caricandosi del dovere di assicurarne la vita, chiunque poi nello Stato detenga ai vari livelli i competenti poteri meriterebbe di essere ritenuto responsabile, in sede non solo politica ma penale, dell’omissione colposa degli atti necessari a garantire nei luoghi di custodia la salute fisica e mentale di chi vi si trovi costretto. La colpa è tanto più grave in quanto è un reato «continuato»: una lunga, pervicace inoperosità. Eppure soltanto ai ciechi di mente o agli affaccendati in ben altre faccende poteva sfuggire che la crescente complessità sociale, il conseguente moltiplicarsi delle occasioni e delle configurazioni delittuose, le arretratezze del sistema penale, la stessa sbrigativa criminalizzazione di condotte scomode al potere, andavano producendo il fatale effetto della drammatica piena della popolazione carceraria. Anche ora, mentre dinanzi all’esplosione delle temperature estive già i liberi fortunati si distraggono con le prospettive d’imminenti refrigeri marini e montani, e mentre invece le carceri si avviano ad essere torride bolge, dove le sofferenze individuali divenute intollerabili possono esasperarsi fino ad essere un pericolo per la sicurezza collettiva, i responsabili politici non sanno far altro se non giocarsi allegramente, per la loro effimera e non sempre onorevole visibilità, il tempo cioè la vita degli altri. |